domenica 8 novembre 2015

giovedì 8 ottobre 2015

Questa crisi è figlia del neoliberismo thatcheriano

Per esigenze di approfondimento ribloggo una  intervista al prof. Salvatori

Questa crisi è figlia del neoliberismo thatcheriano
Intervista a Massimo Salvadori
Anche la sinistra contagiata dall’enfasi sul libero mercato: nel mondo globalizzato ha portato al dominio di oligarchie plutocratiche
«Noi non potremmo spiegarci la depressione in cui è caduta l’economia mondiale a partire dal 2008, nella crisi più grave dopo quella scoppiata nel 1929, senza tener conto degli effetti provocati dall’ideologia e dalla pratica di quel neoliberismo di cui Margaret Thatcher era stata l’apripista». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici e scienziati della politica italiani: il professor Massimo Salvadori. Professore cosa ha rappresentato Margaret Thatcher e il «thatcherismo» su scala internazionale? «Il primo aspetto da sottolineare è che il thatcherismo ha rappresentato dalla fine degli anni Settanta un’onda lunga che non è ancora finita. Quest’onda, avviata in Gran Bretagna, aveva poi trovato immediatamente una sponda ancor più forte e importante in America durante la presidenza Reagan, dove poteva contare su assai significativi economisti che contro il sistema del welfare e contro l’intervento statale in economia, predicavano il ritorno allo Stato minimo. Questa ondata è diventata sempre più potente e dinamica in relazione ad un altro dato della massima importanza». Quale? «Mi riferisco alla spinta che all’ondata neoliberista thatcherian- reaganiana venne data da fattori concomitanti: in primo luogo, dal crollo dell’impero sovietico, che ha avuto un peso determinante nel favorire gli attacchi contro lo statalismo economico in tutti i suoi versanti. Tanto in quello veterocomunista - caduto in discredito totale dopo il 1989 - quanto in quello socialdemocratico, vale a dire sia nella forma rigida che in quella morbida. Ma quello che ha contribuito ulteriormente a dilatare su scala internazionale l’ondata neoliberista, sono state due esperienze ritenute di sinistra». A cosa si riferisce? «In primo luogo al governo Clinton negli Usa, che prese delle misure estremamente rilevanti nello smontare negli Stati Uniti l’eredità del New Deal roosveltiano, che aveva posto dei controlli pubblici sul settore bancario». Ciò vuol dire che il «thatcherismo» ha fatto proseliti anche a «sinistra»? «Credo che questa conclusione sia inevitabile, tanto più che alla politica di Clinton negli Usa e andata affiancandosi quella di Blair in Gran Bretagna. Blair ha contribuito con toni celebrativi a enfatizzare la totale libertà di gioco delle imprese private nell’ambito del mercato economico. Il sommarsi delle rispettive linee, in Gran Bretagna, negli Usa e di lì in maniera crescente in tutti i Paesi occidentali e non solo, ha finito per trovare le condizioni più favorevoli nel quadro della globalizzazione economica, che ha avuto nel neoliberismo la sua bandiera ideologica e politica». L’onda lunga del «thatcherismo» ha dunque segnato anche questo primo scorcio del Terzo Millennio? «Direi proprio di sì. Di quel neo-liberismo che ha portato alla depressione economica più grave dopo la crisi del 1929, Margaret Thatcher è stata indubbiamente l’apripista. L’apripista di un neo-liberismo che ha finito per porre al centro dell’economia mondiale non più la libera impresa secondo un approccio ideologico neo-individualista. Quello che ha determinato nella realtà dei fatti è il

Letture

primato delle grandi oligarchie finanziarie e industriali, le quali hanno avuto la strada spianata nel perseguire i propri interessi particolari, obbedendo a finalità puramente speculative, lasciate libere di operare dal progressivo smantellamento degli organi di controllo pubblici sulla speculazione stessa. E tutto ciò ha prodotto il sopravvento dell’economia finanziaria sull’economia produttiva». In ultima analisi, professor Salvadori, qual è stato il tratto distintivo di Margaret Thatcher? «Credo sia consistito nel farsi interprete e propugnatrice di una ideologia neoliberista la cui finalità era di dare piena libertà, senza regole né vincoli sociali, dei singoli nel mercato economico- finanziario, e di aver portato nei fatti l’economia, diventata globale, sotto il dominio delle minoranze plutocratiche».
di Umberto De Giovannangeli (da L’Unità, 9 aprile 2013)

martedì 6 ottobre 2015

Brevi consigli ai miei studenti per impostare una relazione giuridico/economica



COME STRUTTURARE UNA RELAZIONE DI NATURA GIURIDICA/ECONOMICA

1.       INTRODUZIONE DELL’ARGOMENTO/ INQUADRAMENTO STORICO : se possibile, bisogna sempre partire dai cenni storici dell'argomento da trattare, spiegando come nasce storicamente il problema che si affronta, quando inizia a manifestarsi, come si evolve.  Il nostro diritto ha origini antichissime ed ogni principio attuale trova radici nel diritto romano di duemila anni fa. Pertanto oggetto di discussione iniziale dev'essere proprio la nascita di una norma ed il suo sviluppo nei secoli fino ai nostri giorni.

2.      DEFINIZIONE: per gli istituti giuridici, come per esempio la proprietà, le obbligazioni, le società ecc. la definizione deve corrispondere a quella contenuta nella norma giuridica (esempio: secondo l’art. 2082 c.c. è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi). Per gli argomenti di carattere economico, la definizione deve indicare l’argomento (esempio: il mercato in economia è un luogo ipotetico in cui avvengono gli scambi e in cui si incontrano offerenti e richiedenti)

3.      ANALISI E TRATTAZIONE DELL’ARGOMENTO: Illustrazione del problema e dei vari aspetti della questione (aspetti economici, politici, culturali, sociologici, le varie teorie ed interpretazioni del problema, etc.). • Approfondimento dell’aspetto indicato nel titolo del sottotema (aspetto storico-politico nel caso del sottotema riguardante la moneta.  evolutasi dal baratto, aspetto giuridico nel caso dello sviluppo sostenibile)

4.      COLLEGAMENTI TRA NORME E/O ALTRI ARGOMENTI GIURIDICI O ECONOMICI: individuare gli elementi comuni o di contrasto (per esempio, distinguere l’imprenditore dall’azienda, distinguere il monopolio dalle altre forme di mercato)

5.      OSSERVAZIONI CONCLUSIVE : conclusioni o spunti di riflessione (ci si può avvalere dei pareri espressi  merito da studiosi del settore che si possono reperire anche in articoli di riviste specializzate, oppure si possono trarre proprie considerazioni, alla luce di quanto letto e sentito, su quale scenario futuro si prospetta, quali problematiche sono ancora aperte, cosa è auspicabile, etc)


6.       RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: indicare le fonti da cui si sono tratte le informazioni (Gazzetta Ufficiale, codice civile, norme speciali, ecc. )

lunedì 28 settembre 2015

NEOCLASSICI VS KEYNESIANI

Una breve sintesi per rinfrescare le idee ai miei studenti di IV E e IV D

Buona lettura, la prof Rosy


NEOCLASSICI VS KEYNESIANI

La scuola neoclassica o marginalista (LIBERISMO ECONOMICO):

l'indirizzo neoclassico o marginalista nacque sul finire del 1800 soprattutto grazie all'opera dell'economista inglese William  Jevons, Teoria dell'economia politica, pubblicata nel 1871.
Il pensiero marginalista ha trovato una larga diffusione soprattutto per i risultati raggiunti nell'analisi microeconomica del comportamento del consumatore e dell'impresa. Di questa corrente fanno parte numerosi esponenti tra gli altri, nella scuola austriaca si annoverano Karl Menger, Eugen von Bogm-Bawerk e Joseph Alois Schumpeter, nella scuola di Losanna Lèon Walras e Vilfredo Pareto, nella scuola di Cambridge Alfred Marshall.




Il termine marginalismo deriva dal metodo di analisi utilizzato, consistente nel ricercare le scelte ottimali dei singoli soggetti economici attraverso il confronto tra il costo sopportato e il beneficio ricavato dall'ultima dose considerata del bene (dose marginale, appunto).
Con questo approccio, razionalistico e utilitaristico, essi individuarono le condizioni di equilibrio del consumatore o dell'impresa.






I neoclassici partono dalla teoria di Smith, detta della mano invisibile, per arrivare alla teoria del valore dei classici, ponendosi dal punto di vista del consumatore. Il valore secondo i marginalisti è dato dall'utilità o rarità che il bene riveste per il consumatore (teoria valore-utilità).
La scuola neoclassica va ricordata anche per le importanti innovazioni di metodo introdotte nell'analisi dei fenomeni economici. I marginalisti per primi fecero largo uso dello strumento matematico per elaborare le loro teorie, contribuendo con ciò a rinnovare il linguaggio della scienza economica in senso più scientifico e rigoroso.
In macroeconomia essi accettano la legge degli sbocchi di Say, secondo la quale “OGNI OFFERTA CREA LA SUA DOMANDA”.











Quindi, “la produzione crea la propria domanda”: la produzione aggregata, L’OFFERTA GLOBALE, qualunque sia il suo livello, incontrerà sempre sul mercato una DOMANDA AGGREGATA o GLOBALE capace di assorbirla. Nell’ambito dell’impostazione marginalista, in cui l’equilibrio comporta la “piena occupazione” dei “fattori della produzione”, la legge di Say afferma, come abbiamo visto, che non esistono ostacoli dal lato della domanda al raggiungimento della piena occupazione e che, salvo temporanei squilibri tra domanda e offerta, tutta la produzione è destinata a essere venduta.


La disoccupazione per i classici e neoclassici è una situazione volontaria, dovuta alla incapacità del lavoratore di accontentarsi di una salario più basso e risolvibile in base alla flessibilità dei salari.



L’equilibrio economico si verifica sempre con una piena coincidenza tra reddito effettivo e reddito potenziale, in modo tale che tutte le risorse siano pienamente occupate.




Inoltre, punto essenziale per i liberisti economici è la convinzione che lo Stato non debba mai entrare nel campo dell’economia, salvo alcuni interventi di carattere essenziale, come la difesa interna ed esterna, ed alcuni servizi indispensabili per la collettività.



L’ottimismo della legge di Say fu scalfito e poi disintegrato con la grave crisi economica del 1929, in cui si dimostrò che se la domanda cala a ausa di povertà e stagnazione economica, l’offerta non può risalire né essere assorbita dalla richiesta dei consumatori. Keynes infatti dimostra la mancanza di veridicità di questa teoria.

La scuola keynesiana:


il Trattato della moneta (1930) e la Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta (1936) sono gli scritti indispensabili per l'interpretazione del pensiero dell'economista di Cambridge John Maynard Keynes, e per apprezzarne il contributo da lui apportato all'economia moderna.



Keynes  prende le mosse da una critica severa delle concezioni economiche del liberalismo, in primo dalla legge degli sbocchi di Say. JMK non condivideva l'ottimismo di quelle teorie basate sulla convinzione che il mercato fosse in grado di autoregolarsi (mano invisibile, legge di Say) e, attraverso il libero oscillare dei prezzi dei beni e dei fattori produttivi, riuscisse spontaneamente a raggiungere il pieno utilizzo delle risorse disponibili. Questo principio rivelò tutta la sua inadeguatezza durante la crisi del 1929 che dagli Stati Uniti d'America si estese in tutta Europa.



Per Keynes quella teoria poteva funzionare solo se tutta la moneta percepita dai proprietari dei mezzi di produzione fosse impiegata nell'acquisto dei beni prodotti con quei fattori produttivi.

Il fatto è, sosteneva Keynes, che la moneta, oltre a essere mezzo di pagamento e unità di conto, svolge la funzione di riserva di valore e, proprio per questa sua peculiarità, non è spesa tutta per acquisti ma viene, in varia misura, risparmiata. Le decisioni delle famiglie sulla destinazione del loro reddito dipendono da svariati fattori non sempre prevedibili.
Senza dubbio il consumo dipende dal livello di reddito: più questo è alto, maggiore sarà il consumo, in termini assoluti. Tuttavia, la percentuale di reddito destinata al consumo (propensione al consumo) è decrescente all'aumentare del livello del reddito. La propensione al consumo è assai più elevata tra i percettori di redditi bassi che non tra i soggetti più abbienti..

Nei momenti di grave crisi, l'incertezza sulle decisioni dei consumatori si ripercuote sulle imprese le quali, non conoscendo le scelte future dei consumatori, vivono perennemente il dilemma di quanto investire, vale a dire di quante risorse destinate allo sviluppo della capacità produttiva. E spesso le imprese si trovano in sovrapproduzione, con una serie di scorte invendute, questo,
con una serie di reazioni a catena , porta alla contrazione degli investimenti , alla riduzione dell'occupazione e, quindi, in una diminuzione dei redditi e della domanda.

Le conclusioni a cui giunge Keynes sono diametralmente opposte a quelle dei classici. Non è l'offerta che influenza la domanda, ma piuttosto l'offerta che dipende dalla domanda. Gli imprenditori decidono gli investimenti sulla base delle previsioni di vendita.
Le condizioni di squilibrio come, ad esempio, quella della disoccupazione, lungi dall'essere situazioni transitorie che il mercato facilmente assorbe grazie al variare dei prezzi, possono avere carattere permanente.



In conclusione, il mercato può giungere a situazioni di equilibrio tra domanda e offerta ma non sempre queste sono di piena occupazione, come ritenevano i classici. Più spesso l'equilibrio si verifica in un contesto di disoccupazione, dove il reddito effettivo non è uguale a quello potenziale ma più basso..
Keynes ritiene fondamentale l'intervento dello Stato che con un'accorta politica economica può sostenere la domanda nei periodi di crisi con interventi di varia natura, ad esempio aumentando la spesa pubblica o riducendo il prelievo fiscale, che con   il moltiplicatore e l’acceleratore funzionano da stimolo per la ripresa della economia.


Le teorie keynesiane ebbero applicazione in diversi Paesi, fino ai nostri giorni. La prima e più famosa, denominata New Deal (nuovo corso), riguardò il pian di riforme poste in essere tra il 1933 e il 1938 dal governo americano del presidente Roosvelt per risollevare il Paese dalla grave crisi che lo aveva colpito sul finire degli anni Venti.
Ai nostri giorni le testi keynesiane sono state riviste e gli interventi statali si sono allargati alla soluzione delle problematiche sociali, tutela della salute, pensioni ecc.




lunedì 27 aprile 2015

domenica 19 aprile 2015

lunedì 2 marzo 2015

Esiste davvero la cosi detta “ sovranità del consumatore” ?

Ed ecco un articolo di Sofia Betti e Michela Giombi sull'argomento:


Esiste davvero la cosi detta “ sovranità del consumatore” ?

ADAM SMITH diceva : “ il consumo è il solo fine e scopo di ogni produzione; e non si dovrebbe mai prender cura dell’interesse del produttore, se non in quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del consumatore”.
 Il principio fondamentale del pensiero neoclassico evidenzia come tutto il sistema economico si basi sulle scelte del singolo consumatore per le influenze che queste hanno su vari settori dell’economia. Quindi gli economisti spostano la loro attenzione dalla produzione al consumo; non erano dunque i  produttori a determinare le regole sul mercato, ma i consumatori stessi, che  attraverso i mutamenti delle proprie scelte influenzano il mercato cambiandone anche i prezzi.
L’homo oeconomicus ha, pertanto,  sempre la capacità di scegliere.
La sovranità del consumatore è il diritto di acquistare ogni merce prodotta appena immessa nel mercato al minor prezzo, che lo Stato non deve vietare o limitare in un sistema di concorrenza perfetta anzi promuovere.
Con questa teoria il consumatore è un soggetto semplice e razionale.
Da ciò si può  dedurre che non sono i produttori a determinare le regole del mercato, ma sono i consumatori, attraverso i mutamenti delle proprie scelte, ad influenzare il mercato provocando anche variazioni nei prezzi dei beni.
I consumatori si dicono sovrani poiché con i proprio gusti si orientano tra mercati e imprese, quindi se il consumatore non gradisce un prodotto esce dal mercato o impresa e va dove può soddisfare il proprio bisogno nel modo migliore.
Il produttore quindi riceve un segnale dal consumatore ( parliamo di milioni di segnali ) che indirizzano il produttore a produrre ciò che i consumatori apprezzano e a prezzo minore.


La sovranità del consumatore

Priscilla Tranquilli e Madalina Andronache hanno esaminato la complessa questione della "sovranità del consumatore" . Ecco le loro slides:


Marketing e pubblicità

Samuele Colantoni e Francesco Serpietri della III E  dell'"Enrico Fermi" di Tivoli hanno studiato  i processi secondo i quali la pubblicità influenza il marketing dei prodotti da vendere. 
Ecco le slides:

La concorrenza perfetta: III E

Stiamo studiando le forme di mercato e la concorrenza perfetta è il primo modello da esaminare.Ecco una efficace sintesi nelle slides elaborate da Christian Sapone e Gaia Barbaresi  della III E  AFM dell'"Enrico Fermi" di Tivoli



V grafico:riepilogo brevissimo sulla Costituzione

  RIASSUNTO – LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA DEL 1948 Principi fondamentali e diritti e doveri del cittadino   La Costituzione italiana, n...