
Sono la nipote di un emigrante italiano. Mio nonno nacque in Brasile, a Manaus, città nella quale anni prima si erano tra- sferiti i suoi genitori che non trovarono lì né ricchezza né fama. Tornato a Napoli, sua città natale, negli anni ‘50 mio nonno diventò il presidente di una compagnia navale di emigrazione, la Colombo, che organizzava le rotte degli emigranti verso il nord e il sud America. Era molto premuroso e solidale con chi affrontava il grande viaggio verso l’ignoto: nelle sue memorie di emigrante restavano i ricordi del duro lavoro nelle pampas dal clima insalubre , i richiami continui e sgarbati del capomastro, le malattie, il vitto scadente, i pochi soldi per sbarcare il luna-rio, la nostalgia di casa. Pagina del passato recente, l’emigrazione è stata un passo obbligato per molti italiani, non solo del Sud , ma anche di quelli del Nord, con un grande flusso di popolazioni frontaliere, specialmente provenienti dal Piemonte, dalla Liguria, dal Friuli e dal Lazio. Oggi le persone di origine italiana rappresentano il dieci per cento della popolazione francese, il 21 per cento di quella Argentina e circa il 5 per cento di quella statunitense. Le cause della grande migrazione italiana erano costituite in parte da “push factors” ed in parte da “pull factors” Tra i primi, come fattori di respingimento annoveria- mo sicuramente le precarie condizioni economiche in cui larga parte della popo-lazione versava, ma anche, specialmente per i giovani maschi, il fenomeno della coscrizione obbligatoria, cui cercavano di sottrarsi, che spesso obbligava a condur- re una vita clandestina e sovente sfociava nel brigantaggio. Tra i “push factors”, fattori di attrazione, andavano considerati la speranza di arricchirsi e l’idea di diventare cittadini di un grande paese costituito completamente da immigranti. Nel periodo del fascismo, inoltre, molti tra gli immigrati erano antifascisti perseguitati dal regime o dissidenti che decisero di trasferirsi in America anziché essere perseguitati in una patria divenuta inospitale. Anche per molti migranti proveniente della nostra cittadina di Tivoli la Francia è stata la destinazione più frequente.

Ma tanti italiani emigravano verso le Americhe. Ellis Island è un isolotto situato alla foce del fiume Hudson, nei pressi del porto di New York City. E’ comune- mente ritenuto il simbolo del patrimonio culturale degli immigrati provenienti da tutti i paesi europei e diretti negli Stati Uniti. Dal 1892 ino al 1954 in quest’iso- la transitarono circa venti milioni di emi- granti, in cerca di libertà e di opportunità economiche. All’arrivo al centro di accoglienza, ciascun immigrato doveva esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva condotti in America, mentre dei medici del servizio immigrazione visitavano i nuovi arriva- ti, contrassegnando con la schiena con un gessetto coloro che dovevano essere sottoposti ad esami più approfonditi America, mentre dei medici del servizio immigrazione visitavano i nuovi arriva-ti, contrassegnando con la schiena con un gessetto coloro che dovevano essere sottoposti ad esami più approfonditi. Chi superava il primo esame, veniva poi accompagnato nella sala dei Registri, in cui venivano registrati dati quali le generalità dell’immigrato, la destinazione, la disponibilità di denaro e le attitudini lavorati- ve, per essere successivamente sbarcato a Manhattan. Chi veniva sottoposto alla successiva visita e fosse giudicato non idoneo, veniva reimbarcato sulla stessa nave che lo aveva portato negli Stati Uniti, la quale aveva l’obbligo di riportare in patria gli “scartati”. Negli Stati Uniti in cui l’abbondanza di terra poco costosa era un fattore allettante, gli italiani – chiamati fellas, termine che nel gergo significava“ ragazzi”, si distinguevano per svolgere principalmente lavori agricoli, anche se successivamente sono stati impiegati in lavori principalmente urbani. Gli italiani sono stati notati e apprezzati anche per la loro diligenza. Hanno lavorato come macellai, raccogli- tori di stracci, addetti alle pulizie della fogna e in tutti quei lavori duri, sporchi, pericolosi che gli autoctoni non desidera- vano. Anche i bambini immigrati hanno lavorato in dalla più tenera età, come del resto avveniva in Italia, spesso a scapito della loro educazione scolastica. Gli italiani emigrati in America erano apprezzati per il loro rifiuto di accettare la carità o di ricorrere alla prostituzione per soldi. Le condizioni di vita in cui gli italiani immigrati a New York vivevano erano spesso drammatiche e ai limiti dell’indigenza. Erano famosi per la loro sobrietà, ma venivano spesso osservati comportamenti tipici, come la sporcizia delle loro abitazioni e la tendenza a risparmiare su- gli alimenti in un tentativo disperato di accumulare soldi. Partendo dall’esperienza di mio nonno emigrato, nella mia esperienza di mediatrice culturale ho confrontato e raccolto tante vicende simili, avvenimenti diventati storia d’Italia. Il nostro Paese ora è diventato terra di emigrazione, e tuttavia sembra aver dimenticato i racconti dei fellas e dei macarunì che partirono su fatiscenti bastimenti o attraversarono clandestinamente le frontiere in cerca di un futuro migliore. Proprio come successe a mio nonno, nato in Brasile da immigrati italiani.
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